Lo scorso fine settimana, riordinando la cantina di casa, mi sono capitate per le mani alcune vecchie foto, un tempo appese ai muri di altre case e poi finite in una scatola durante uno dei traslochi degli anni passati. Una delle foto è questa:
Sono io, stravaccato alla fine della parte mobile della Route Nazionale delle Comunità Capi AGESCI del 1997 ai Piani di Verteglia. Nel 1997 sono Capo Reparto di un gruppo scout AGESCI di Torino, e la Route Nazionale sarà una bellissima esperienza: un modo per coronare di senso tanti anni si servizio, conoscere persone nuove, e persino mettere in piedi qualche progetto che crescerà negli anni successivi. Personalmente farò ancora servizio come caporeparto per un anno, mi laureerò nel 1998 e partirò di filato con una borsa di studio per il CERN, non prima però di aver portato i ragazzi al mio ultimo campo estivo alla base scout di Kandersteg, in Svizzera.
Affetto come tutti da narcisismo da social network, nei giorni scorsi ho pubblicato la foto commentando così:
La chitarra c'è, il fischietto da caporeparto pure, la collanina con l'ocarina regalata da Irene, il cappellino dei Chicago Bulls: sono io, no c'è dubbio 😉
e poi anche, dopo, per spiegare l’immagine a chi di scoutismo sa poco o niente:
Lì c'è un ventiquatrenne che ha marciato per una settimana insieme con coetanei a vario titolo impegnati nell'animazione (qualcuno, quel 24enne li per esempio, direbbe persino nell’educazione) di bambini e ragazzetti, per ritrovarsi nello stesso posto con altri coetanei, impegnati più o meno nelle stesse attività in altre parti d'Italia; è zozzo e sudato, piuttosto felice, ha con se una chitarra come sempre da quando ha 14 anni, suona dignitosamente e potrebbe persino caricare senza troppi problemi, ma è fidanzato da poco più di un anno con quella che sarebbe diventata sua moglie - e che li non c'è - e va bene così. Ah, ha anche parecchia fame, che le fanciulle che si occupavano dei rifornimenti non erano esattamente efficienti, ma chi non ha sempre molta fame a quell'età (e pure dopo)?
Su uno dei social dove è stata pubblicata la foto, dopo i primi commenti di rito, si è sviluppata una discussione sull’accessibilità dello scoutismo oggi. Diversi partecipanti alla discussione, tutti ormai in età da essere genitori di ragazzi che potrebbero o vorrebbero partecipare all’esperienza scout, hanno raccontato l'esperienza di liste d’attesa infinite, e della necessità di iscrivervi la prole persino alla nascita (!). Abbiamo collettivamente cercato di capire da dove venisse questa difficoltà di accesso, e dalla discussione sono venute fuori due punti che mi paiono interessanti, ragione per cui li riprendo qui.
Il primo punto riguarda il legame tra la difficoltà di accesso all’esperienza scout e la carenza di capi (ovvero, degli adulti educatori che si occupano dei ragazzi), e le ragioni profonde di questa carenza. È venuto chiaramente fuori che fare il capo scout è estremamente impegnativo: il numero di riunioni, sia con i ragazzi che organizzative (a tutti i livelli: di gruppo, zonali, regionali...), è cresciuto a dismisura. Impegnarsi nel servizio come capo unità - lo dico per esperienza personale, e non penso sia diverso oggi - è un impegno totalizzante, spesso accessibile solo a studenti universitari, mantenuti dalla famiglia ed estremamente motivati. Il sacrificio della vita personale, o di altre attività parallele oltre a studio o lavoro e gli scout, può essere inaccettabile per molti, o semplicemente non sostenibile. Questo ha ovviamente delle conseguenze importanti: ovviamente la carenza di capi, e la conseguente difficoltà di offrire la possibilità dell’esperienza scout a un più gran numero di ragazzi; ma anche una certa “selezione all’ingresso” di chi può fare il capo, che potrete non essere necessariamente sana. Un capo che non sia solo uno studente universitario, ma magari anche un lavoratore, e magari più grande, forse già con famiglia, può essere una risorsa educativa importante per i ragazzi. Conosco persone che sono riuscite a mantenere l’impegno nel servizio scout anche in altre fasi della loro vita, ma sono certamente pochi. Può esistere un altro modello per il reclutamento dei capi scout? E forse un posto per adulti (non solo i membri del MASCI, ma anche i genitori dei ragazzi e più genericamente gli “amici” dei gruppi) che abbiano saltuariamente voglia di aiutare? Sono lontano della discussioni dell’AGESCI su questi temi da troppi anni per dire se esista una discussione su questi temi, ma mi interesserebbe certamente approfondire.
Il secondo punto, che ho sollevato personalmente perché mi sta a cuore, e mi pare importante al di là dello specifico dello scoutismo, è la questione dell’autonomia dei ragazzi. In teoria lo scoutismo, perlomeno nella fascia originale che si rivolge a ragazzi dagli 11 ai 16 (lascio fuori i lupetti - i bambini nella fascia 8-11 anni - che richiederebbero un discorso a parte, per i più grandi dovrebbe essere ovvio) dovrebbe incoraggiare la capacità di fare e vivere esperienze in gruppi verticali senza (troppa) presenza degli adulti, dove il ragazzo più grande si prende la responsabilità di quello più piccolo. Mi pare invece che negli anni l'importanza di questo aspetto fondante si sia ridotto progressivamente, portando a una minore autonomia dei ragazzi, e dunque molto più lavoro di animazione degli adulti responsabili. Ci sono molte ragioni all’origine di questa transizione, in parte certamente legate all'evoluzione della società stessa (in generale i ragazzi sono - e sono voluti - molto meno autonomi oggi di quanto non lo fossero nel passato, e lo scoutismo riflette a suo modo questo cambiamento strutturale), ma anche della proposta scout stessa, che da un modello educativo dell'"imparare facendo" è diventato troppo spesso un modello dell'"imparare ascoltando" (un peccato per me imperdonabile, quasi tanto quanto l'invenzione dei lupetti 😉 ). Da cosa deduco questo spostamento? La mia esperienza è ovviamente solo aneddotica - i racconti di ragazzi figli di amici e parenti che frequentano gruppi scout in Italia - ma mi pare di aver colto un tema comune: ragazzi scout che non sanno sistematicamente cosa succederà nelle loro attività future (dove sarà il campo o l’uscita, come ci andranno, cosa faranno, ….), perché non è stato ancora detto loro dai capi. Non dovrebbero invece essere loro i protagonisti (a vario titolo, e ovviamente in funzione della loro età e capacità) e gli inventori delle loro imprese e avventure?
Mentre scrivevo queste riflessioni mi è tornato un mente un articolo letto qualche anno fa. L'articolo provava a mettere a confronto a quali distanza da casa i bambini e i ragazzi dell’attuale generazione fossero liberi di andare senza supervisione rispetto ai loro genitori, nonni o bisnonni:
La perdita di libertà e di autonomia è evidente, e, per quello che mi riguarda, preoccupante. Ovviamente ci sono stati cambiamenti nella società che almeno in parte potrebbero spiegano questo cambiamento: per esempio, ci sono più veicoli a motore in giro oggi che nel passato, e le strade sono (forse) meno sicure. Basta questo a giustificare i guinzagli (anche elettronici, si pensi la geolocalizzazione dei cellulari) che mettiamo ai nostri figli, motivandoli con il desiderio di “tenerli al sicuro”? A casa Irene ed io viviamo per primi questo dilemma con Giulia, e non siamo certo i migliori nelle nostro approccio. Quando ci riguardo a mente fredda, mi pare chiare che la motivazione profonda che ci porta a limitare o a controllare i movimenti della nostra prole sia quella di essere tranquilli noi adulti. Lasciare andare, permettere che i figli prendano dei rischi (anche a nostra insaputa), accettare che esista una parte dalla loro vita che non conosciamo e che non possiamo controllare è faticoso e ansiogeno, e siamo noi adulti i primi a non accettare il fardello (educativo) di questa fatica e questa ansia che invece ci toccherebbero. Il non farlo, però, aiuta a coltivare generazioni di giovani adulti poco autonomi, e a loro volta ansiosi e incapaci di decidere, perché ogni decisione autonoma è una fatica che bisognerebbe imparare a fare, accettando il prezzo dello sbaglio, molto prima della maggiore età!
Un paio di anni fa ho letto "Mio figlio è normale" di Stefania Andreoli, e ho trovato molto illuminante la sua analisi sulla scomparsa (o meglio, sulla "latenza") dell'adolescenza. Per concludere, ammesso che di conclusione si possa parlare, riporto un paio di brani che mi paiono collegati - almeno trasversalmente - alle riflessioni che ho buttato giù qui sopra, specie quelle sugli adulti ansiosi e controllanti, e i figli adolescenti tranquilli e "al guinzaglio":
(...) Nella nostra cultura occidentale stiamo assistendo alla scomparsa sotto i nostri occhi dell’adolescenza scandalosa e arrogante, vitale e trasformativa per come l’abbiamo intesa fino a ieri, sostituita da quelle che potremmo chiamare «adolescenze latenti».
(...) Gli adulti che (...) osservano questo nuovo fenomeno (...) ne sono perlopiù soddisfatti e lusingati: dal loro punto di osservazione, guardano al figlio che hanno e non ai figli di tutti che la cultura produce, e così pensano che ragazzi che complessivamente rimangono a vista, costantemente segnalati dai loro radar, affezionati alla casa famigliare, dolorosamente crucciati all’idea di deludere i loro genitori, senza segreti, con i loro stessi gusti in fatto di musica, efficaci e di successo sul piano della reputazione e dell’immagine che danno di se stessi, non facciano altro che fornire una prova del loro successo parentale.
Mi pare che vinca l’idea che se ho un figlio adolescente che non mi fa invecchiare precocemente e non mi dà tutti i problemi che ho creato io alla sua età (...) io non mi ponga il problema che forse potrebbe esserci qualcosa che non va.
(...) Sostengo dunque che (...) la latenza dell’adolescenza non sia un’invenzione dei giovani, bensì il risultato di una loro reazione agli input dati dai loro adulti di riferimento.
Se avete figli adolescenti, o siete anche solo un po' interessati a questioni di educazione e crescita di quella fascia di età, ve ne consiglio certamente la lettura.
IgorB dice
"Lasciare andare, permettere che i figli prendano dei rischi (anche a nostra insaputa), accettare che esista una parte dalla loro vita che non conosciamo e che non possiamo controllare è faticoso e ansiogeno".
Da genitore di due adolescenti riprendo questo passo: sono esattamente io quello che fatica a fare questo passo. Sono consapevole che i figli adolescenti debbano mettersi in gioco, uscire, cercare di svincolarsi dal controllo. Ma sono anche seriamente preoccupato e molto insicuro, sia del mio operato di genitore che della loro capacità di rendersi indipendenti. E questo non fa che creare quel doppio legame in cui rimango incastrato...