Qualche giorno fa sono uscito a cena con due amici di vecchia data. Invece di parlare di biciclette o trapani a colonna, come pare sia opportuno quando ci si incontra tra maschietti, siamo finiti a parlare di genitori che invecchiano più o meno bene prima o poi muoiono; e poi, di dove risieda la nostra coscienza e cosa ci definisca come persone (specie quando ci scoppia qualcosa nel cervello, o ci viene l’Alzheimer); e infine, inevitabilmente, di futuro cupo incerto, tra pandemie e riscaldamento globale.
Uno dei due amici era particolarmente mesto, e forse persino cinico. La cosa non mi ha particolarmente sorpreso. Da una parte, nel giro di un anno ha perso sia la mamma (per COVID, e dopo lunga malattia degenerativa) che il papà (per un tumore, ma credo anche per aver perso la moglie poco prima). Dall'altra, questo amico è come me uno scienziato, e dunque non si fa troppe illusioni sull'evoluzione futura del mondo in cui viviamo (sì, ci sarà la quinta ondata della pandemia; sì, il riscaldamento globale è sostanzialmente inarrestabile).
Nella corso della chiacchiera, paradossalmente io facevo la figura dell'ottimista. Dico "paradossalmente" perché ho passato gli ultimi mesi a fare il lucido profeta di sventura (rischiando a più riprese il divorzio!), e qualche settimana fa ho trascorso in urgenza un periodo in Italia, dove mio padre ha pensato bene di farsi qualche giorno in terapia intensiva seguiti da una settimana in ospedale (niente a che vedere col COVID, ma una situazione che per qualche giorno è stata veramente molto grave, e dalla quale ne è uscito tirato per i capelli, e da cui si sta ancora riprendendo. Sta decisamente meglio, ma ha rischiato parecchio, e ne paga ancora le conseguenze). Insomma, anch'io avrei qualche ragione per darmi a una rassegnazione triste. E invece.
Il mio amico mi chiedeva: "come puoi essere ottimista?". Io ho allora faticato un po' a spiegare che in realtà non lo sono per niente. La cosa più prossima a come mi sento è più o meno riassunta in questo articolo di Arthur C. Brooks che ho letto qualche settimana fa sull'Atlantic. C'è una grossa differenza tra ottimismo e speranza, e tanto il primo non mi appartiene, quanto aspiro alla seconda. L'ottimismo è in qualche modo passivo, mentre la speranza richiede una atteggiamento attivo. Traducendo al volo dall'articolo:
L'ottimismo è la convinzione che le cose andranno bene; la speranza non fa tale ipotesi, ma è la convinzione che si può agire per migliorare le cose in qualche modo.
Speranza e ottimismo possono andare insieme, ma non è necessario. Si può essere un ottimista senza speranza, che si sente personalmente impotente, ma presume che tutto andrà bene. Oppure si può essere un pessimista speranzoso, che fa previsioni negative sul futuro, ma ha fiducia di poter migliorare le cose nella sua vita e in quella degli altri.
Ecco, penso di essere un pessimista speranzoso, per certi versi ben descritto dalle parole di Antonio Gramsci:
Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà.
Deve essere per questo che le iniziative come quelle dei cartelli "andrà tutto bene" durante i mesi più cupi della pandemia mi hanno sempre lasciato freddo (per quanto ne riconosca la necessità catartica per esorcizzare la paura): mi parevano ciecamente ottimiste, mentre io preferisco essere pessimisticamente speranzoso, e rimboccarmi le maniche senza allo stesso tempo nascondermi la fatica e le rinunce che l'impegno porta sempre con sé.
Mentre condividevo queste riflessioni sul socialino di nicchia, qualcuno dei miei amici immaginari mi ha regalato queste parole di Reinhold Niebuhr, che mi parlano forse ancora di più di quelle di Gramsci. La speranza, a differenza dell'ottimismo, impone di ammettere la finitezza della nostra vita e l'incompletezza intrinseca delle nostre azioni e del nostro impegno, e allo stesso tempo dà loro un senso, che le trascende:
Nulla che valga la pena di essere fatto viene completato nel corso della nostra vita; quindi, siano salvati dalla speranza.
Nulla di vero o di bello o di buono ha un senso nel contesto immediato della storia; quindi, siamo salvati dalla fede.
Niente di ciò che facciamo, per quanto virtuoso, può essere realizzato da soli; quindi, siamo salvati dall'amore.
Nessun atto virtuoso appare poi così virtuoso dal punto di vista dell'amico o del nemico come lo sembra dal nostro; dunque, siamo salvati dalla forma ultima dell'amore che è il perdono.
Zorapide dice
"Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato."
S.Paolo, Lettera ai Romani 5,3-5
Grazie e Buon Natale!
GIGI dice
Ottimismo/pessimismo, speranza/disperazione, amore/odio, attività/accidia: sono solo diversi livelli di mediatori chimici in quel meccanismo complicato che portiamo sopra al collo.
Tutto un sistema complesso che ci fa sentire di esistere, così come la reazione agli stimoli elettromagnetici ci fa credere che esista un universo come noi lo immaginiamo.
Allegria! e comunque buon Natale e buon Anno nuovo
Matteo dice
Beh, un bel giochino che può, come tutti i giochini, essere rivoltato. I mediatori chimici e i loro diversi livelli, sono la reificazione degli stati di ottimismo/pessimismo, oppure degli stati di disperazione/speranza, o anche di odio/amore, o ancora di attività/accidia, una loro semplificazione giocattolo. Così come una discreta loro semplificazione è tutto l'insieme dei "meccanismi" che portiamo sul collo; e ancora: il fatto che debbano essere così complicati, discende dalla incommensurabilmente più complicata relazione tra quelle entità evocate sopra e troppo disinvoltamente scaricate in favore di un robottino meccanico. Come possa poi questo sistema di funi e pulegge, complesso quanto si vuole, arrivare al sentimento dell'esistenza, che verrebbe "sentito" attraverso di esso, direi che è qui principalmente che casca l'asino. Come possano, infine, i fenomeni elettromagnetici trasformarsi in "stimoli" che sono in grado di salire fino al livello del "credere o non credere, e dell'immaginare ", sottraendosi o, addirittura, emancipandosi da quello stesso universo in cui li abbiamo collocati, sembra seguire solo da un lento sdrucciolare semantico su una sintassi intrinsecamente sofista.
Il tutto somiglia tanto ai discorsi di Leslie Winkle sull'amore, quando Leonard cerca di farle la corte. Quello stesso personaggio che successivamente dirà che il matto è Sheldon Cooper.