Da un po' di tempo ascolto molto più jazz di quanto non facessi nel passato. Sarà un segno dell'età, o forse è soltanto il maturato desiderio di espandere un po' i miei orizzonti musicali, tanto in quello che ascolto che in quello che suono (o meglio, che provo a suonare, con successi veramente alterni). Ascolto parecchio jazz, dunque, e in particolare jazz per chitarra. Grandi classici, e anche qualcosa di più moderno: Charlie Christian, Wes Mongomery, Jim Hall, Kenny Burrel, Joe Pass, Pat Martino, John Scofield, Kurt Rosenwinkel, e persino un po' di Pat Metheny (ma quest'ultimo non tanto, perché non l'ho mai veramente amato molto). Quello che però preferisco tra tutti, e a cui mi scopro a guardare come a modello a cui ispirarmi, è Julian Lage.
Se a tutti gli altri chitarristi sono arrivato per strade piuttosto banali (ovvero, cercando "great jazz guitar players" sulla rete, e poi seguendo un link dietro l'altro), devo ammettere che a Julian Lage sono approdato con un percorso che si potrebbe dire serendipico. La verità è che, nel cuore e nelle mani, io sono un chitarrista scassone: cresciuto su chitarracce da pochi soldi a suonare per cantare intorno al fuoco, i miei miti sono sempre stati dei rocchettari classici, o, al massimo della raffinatezza, dei chitarristi blues. Il mio ideale di chitarra è una telecaster degli anni '60 e '70, quella di Jimmy Page o Joe Walsh, per capirci: tagliente e invadente. Nel corso delle mie incursioni nel complesso mondo del jazz, ho scoperto però che una tele può veramente essere una bestia dai mille volti, e che molti jazzisti l'hanno cavalcata con risultati molto interessanti. Da questa scoperta a cercare "telecaster for jazz", e perdersi nei meandri del genere, il passo è stato breve. Ho incontrato Danny Gatton, Mike Stern, Jim Campilongo, Bill Frisel, Ed Bickert, Roy Buchannan... e, ovviamente Julian Lage.
Il mio primo incontro con Lage è stato questo articolo su Premier Guitar. Quella foto di lui bambino, con una telecaster di cartone, mi ha rispedito in diretta al mio primo anno di superiori, quando la mia adorazione per Bruce Springsteen era assoluta e indiscussa, e le telecaster disegnate e ritagliate su fogli e diari scolastici si sprecavano.
Dell'amore di Lage per la telecaster, quello che mi parla di più è quel suo dire che si tratta di una chitarra "brutalmente onesta". Non voglio entrare nei dettagli tecnici, che piacerebbero forse solo ai chitarristi che leggono queste pagine, ma c'è una verità profonda in questa suo apprezzamento per quel particolare strumento. Quando ascolto pezzi come "Love hurts" (anche se nel video li sopra non suona una telecaster), tra le tante cose assaporo questo suono sempre al limite della distorsione, come un cavallo appena domato, all'apparenza docile ma che potrebbe scappare strappando le briglie da un momento all'altro. Sento le dita di Lage, specie quelle della mano destra che tengono il plettro, trattenersi, dosare la forza con cui percuotono le corde, incanalare il fuoco per scaldare ma non bruciare.
Quando parla, Lage ha una calma da esperto di arti marziali, una capacità zen di concentrarsi che a volte mi ricorda quella di Alex Honnold quando arrampica, ma condita da una dolcezza che Honnold raramente riesce a esprimere. Se io avessi mai in mano la stessa chitarra che canta sotto le dita di Lage, sono certo che mi farei trasportare, che prenderebbe il comando lei, e che cederei alla distorsione. Passerei in un attimo da un jazz appena controllato e intenzionale a un blues elettrico incazzato per finire presto a un rock urlante e sgangherato. Ho ancora molto da imparare.
Ascoltavo Love hurts sabato scorso, nel pomeriggio, mentre impastavo la pizza per la cena. Irene era a fare la spesa, Giulia era in camera suo con una sua amica, e da loro avevo avuto il permesso di ascoltare musica, ma "senza parole, per favore, Papà", e dunque avevo scelto Lage. Tutto l'album mi piace molto, ma la title-track di Love hurts resta la mia preferita. È melodica e persino semplice, e di nascoso mi dico che potrei persino imparare a suonarla io. Impasto, e la musica mi avvolge come come un crepuscolo autunnale. La luce della giornata se ne va presto presto, e ormai non fa più così caldo. In questi giorni potrebbe venire la tentazione di rientrare prima, ma con un piccolo sforzo si può ancora restare fuori; quei due accordi pigiati a ogni refrain sono come una spinta: l'amore può far male, e poi sta per tramontare, ma facciamo ancora un giro, c'è ancora tempo, vale ancora la pena.
Giacinta dice
Un percorso serendipico mi ha portato qui per conoscere il tuo blog e Julian Lage ?
Marco dice
È possibile, e sono i percorsi migliori! Benvenuta!