Nelle vacanze di Pasqua sono stato in Italia per qualche giorno. Tra le altre cose, ho fatto un salto in biblioteca, e ho preso in prestito e divorato Cosa tiene accese le stelle, l'ultimo libro di Mario Calabresi, l'attuale direttore de La Stampa di cui avevo già apprezzato Spingendo la notte più in là e soprattutto La fortuna non esiste. Se in quest'ultimo Calabresi raccontava un'America che non si arrende di fronte a crisi, problemi e disgrazie, mostrando una forza d'animo e una riserva di risorse a volte veramente incredibile, in Cosa tiene accese le stelle l'esercizio è trasferito in Italia, con risultati letterariamente altrettanto stimolanti, anche se parecchio diversi nelle conclusioni.
La sensazione che mi era rimasta, dopo aver chiuso La fortuna non esiste, era che non esiste disgrazia che possa fermare la determinazione di uomini e donne, straordinari nella loro normalità. Finita l'ultima pagina di Cosa tiene accese le stelle, mi sono convinto che questa eccezionale resilienza sicuramente non può applicarsi alla società italiana, e che forse è un tratto esclusivo di quella statunitense. Il sottotitolo di Cosa tiene accese le stelle è Storie di italiani che non hanno mai smesso di credere nel futuro. Quasi a voler confermare l'ipotesi contraria, ovvero che l'Italia ha smesso sistematicamente di credere in una possibilità di riscatto, i personaggi fiduciosi nel futuro che Calabresi incontra e racconta sono tutti anzianotti: il lusso di non pensare al passato come ad un'epoca d'oro, e di credere che l'oggi sia meglio di ieri e il domani sarà meglio di oggi, nelle pagine di Cosa tiene accese le stelle sembra riservato quasi esclusivamente a simpatici e resistenti ottuagenari. I tratti distintivi che emergono per le generazioni italiane più giovani sono invece il mugugno, e la rassegnazione. Scrive Calabresi, rispondendo a una giovane lettrice, trovandomi (purtroppo) a sottoscrivere in pieno:
La cultura della lamentela in questi anni ha raggiunto livelli terribili, è la cosa più negativa che ci sia, perché cancella davvero ogni possibilità di riscatto e cambiamento. Innamorarsi delle proprie sfighe è rassicurante e ti fa vivere in un territorio protetto, in un mondo che riconosci e che ti rassicura. Ogni epoca impone una forma di resistenza, la nostra è non essere lamentosi.
Uno potrebbe chiedersi dove affondino le radici di questa cultura della lamentela che paralizzerebbe le nuove generazioni. In buona misura, Cosa tiene accese le stelle propone una risposta a questa domanda. La si trova, a mio parere, nel capitolo intitolato "Perché abbiamo bisogno di un sogno", che inizia con questa analisi lucidissima e spietata dell'asfittico panorama italiano:
Oggi, ciò che manca di più agli italiani è lo spazio, uno spazio fisico ma anche mentale, che significa possibilità, futuro e speranze. Per decenni questa sensazione di apertura è stata il motore della nostra crescita e lo stimolo a pensare positivo.
La riflessione sulla mancanza di spazio continua con le parole di Juan Carlos De Martin, professore al Politecnico di Torino, che approfondiscono proprio il divario con la società americana:
Il concetto di spazio è essenziale per capire i problemi dell'Italia di oggi. Negli Stati Uniti tutto è più largo e mobile: prima della crisi, ogni anno una persona su sette cambiava luogo di lavoro; la loro è una società più vasta e con più opportunità, e dunque con meno individui. Qui, invece, quel che hai intorno a te, i colleghi o anche gli amici, te li tieni per tutta la vita, così sei costretto a tenerne continuamente conto, e questo ti frena e ti inibisce. L'atteggiamento peggiore è quello di guardare con sospetto chi cerca di emergere, chi ha idee e proposte nuove. È questa l'altra grande differenza: la società americana ha un pregiudizio favorevole per il nuovo, mentre da noi c'è un pregiudizio negativo. Il messaggio che passa è che sia meglio stare tutti nel fango piuttosto che lasciare uscir fuori qualcuno.
Viene naturalmente da chiedersi il perché di questa differenza. Mentre leggevo il libro di Calabresi, mi domandavo se una parte di responsabilità non fosse da cercare proprio tra quegli anzianotti che sembrano i soli a riuscire a immaginare il futuro come una possibilità di miglioramento. Mi viene da pensare che la generazione dei nostri padri (o nonni, a seconda dell'età. Insomma coloro che oggi hanno tra i 60 ed i 70 anni) questo problema di spazio non l'hanno sentito, perlomeno non con la stessa intensità. Anzi, sicuramente quello spazio l'hanno occupato e utilizzato, per molti versi soffocando le generazioni successive. Ne scrivevo in passato a proposito dell'università italiana, ma penso che la riflessione si applichi a molti altri ambiti.
A proposito di università italiana, nell'autunno del 2012 mi sono impegnato nelle bizantine procedure necessarie per partecipare al grande gioco dell'Abilitazione Scientifica Nazionale. Per chi non fosse addentro alle questioni accademiche, si tratta - semplificando molto, e tenendosi deliberatamente fuori dalle polemiche - di una procedura collettiva inventata l'anno passato per valutare chi, nell'esercito di ricercatori più o meno precari e diversamente impiegati, fosse atto a diventare professore associato o ordinario della propria disciplina. Perché l'ho fatto? In buona parte, perché in Italia non si sa mai quando si riaprirà una finestra: in teoria, l'ASN dovrebbe avvenire ogni anno, ma è difficile fidarsi vista la stabilità governativa degli ultimi tempi. Ma anche, lo confesso senza problemi, perché io in Italia, se ci fosse spazio, tornerei anche. Dove spazio, in questo caso, significherebbe (anche) rientrare in una posizione che tenga decentemente conto della mia età e carriera, e mi offra opportunità comparabili o migliori di quelle che ho adesso. Il che, lo ammetto senza problemi e senza rimpianti prima di tutto a me stesso, non sembra uno scenario molto probabile, perlomeno oggi.
Alberto Ferrero dice
Caro Marco,
non sono ancora tra quelli che oggi hanno tra i 60 ed i 70 anni, ma ci sono vicino, e in effetti ti posso confermare che quel senso di "avere spazio" era sentito in modo alquanto diverso un po' di anni fa' (forse bisognerebbe risalire ad almeno 30 anni addietro), ed era sentito in modo positivo, anche rispetto al futuro.
Non sono molto d'accordo quando dici che" [quelle persone] sicuramente quello spazio l'hanno occupato e utilizzato, per molti versi soffocando le generazioni successive [, e] penso che la riflessione si applichi a molti altri ambiti". Per l'università non ne ho esperienza diretta - o per meglio dire i miei ricordi si fermano a quasi vent'anni fa, a quello che diceva mio padre, professore universitario - ma per gli "altri ambiti" lasciami dire che volentieri i lavoratori di 60 è più anni si farebbero da parte se ne avessero la possibilità e questa aspirazione non fosse stata conculcata da iniziative politiche e leggi (che penso tu conosca) volte ad allungare in maniera indecente la permanenza sul lavoro di persone che poi non sono neanche più ritenute utili e tanto meno valorizzate per la loro esperienza.
La solita guerra tra poveri, insomma.
Marco dice
Ciao Alberto,
C'è sicuramente del vero in quello che dici, e l'allungamento indiscriminato dell'età pensionabile non giova di certo a "lasciare spazio ai giovani". Penso però che la mia riflessione rimanga valida, se non in generale, perlomeno per le posizioni di responsabilità e, in qualche modo, potere. Quanti professori universitari, magari ordinari, di 40 anni conosci? Quanti amministratori delegati? Quanti ministri, sindaci, dirigenti d'azienda? Questi posti sono tutti occupati stabilmente dalla generazione di cui parlavo, senza speranza di ricambio in tempi ragionevoli, e certo non perché queste persone non possano andare in pensione per motivi tecnici o livelli economici inaccettabili. Per non parlare di quanti tra questi in pensione sono formalmente andati, solo per rimanere sul mercato come professori "emeriti" o consulenti.
Alberto Ferrero dice
Nella prospettiva che tu evidenzi è vero, è così. E merito vs anzianità spesso non sono certo in proporzione diretta da giustificare tale andazzo. Ammetto che io sono, in modo idiosincratico, portato a vedere le cose al mio livello (che non è certo quello degli amministratori delegati, né dei professori ordinari). Sui consulenti e sugli emeriti "sempre al lavoro", mi permetto solo di dire che spesso le loro posizioni non sono molto chiare. Come minimo. Almeno per la mia esperienza.
lallo dice
Calabresi pontifica e poi fa controinformazione dirigendo la Stampa. Fa i danni e poi scrive libri accusando gli italiani di non sognare. Gli Italiani hanno gli incubi. Sanno che l'Italia è occupata in tutti i gangli del potere, da personaggi come Calabresi. Quelli che predicano bene e razzolano malissimo. E così facendo lacerano ancor di più il tessuto morale del paese. Che prende nota e non crede più a nulla. 20 anni fa c'era solo Berlusconi quale cialtrone e ciarlatano (gli aspetti legali li tralasciamo). Oggi sono rimasti in circolazione solo personaggi di quello spessore morale. E' l'Italia Berlusconizzata. Forse era meglio una bomba nucleare......
Marco dice
Lallo,
Le accuse che fai a Calabresi mi sembrano pesanti e decisamente un po' qualunquiste. Dalle mie parti La Stampa a suo tempo veniva chiamata "La bugiarda", per dirti quanto la si ritenesse affidabile, e a lungo è stata il giornale dei padroni, essendo controllata alla famiglia Agnelli che a suo tempo faceva il bello e il cattivo tempo in una Torino che viveva (e moriva) praticamente solo di Fiat. Da quei tempi le cose sono cambiate non poco, e, sebbene sia lontano dall'essere perfetto, quel giornale è evoluto parecchio, spesso in bene. Che cosa ti fa dire con tanta sicumera che la La Stampa di Calabresi fa "controinformazione"? Che vuol dire? Cosa significa che Calabresi "pontifica", "predica bene ma razzola malissimo"? Di che cosa lo accusi nello specifico? Quali connivenze con il potere gli rimproveri? E soprattutto, hai letto i suoi libri? Nel caso specifico, direi di no, perché certamente non "accusa gli italiani di non sognare", come sintetizzi in modo decisamente approssimato: al limite constata come come il sogno non sia più a loro portata di mano, senza che necessariamente ne abbiamo la completa responsabilità. Proviamo ad avere una discussione di un livello un dito più elevato che, guarda caso, proprio il mugugno fine a se stesso dove tanto è "meglio una bomba nucleare"?
P.S. Lo sai quanti anni ha Mario Calabresi? Te lo dico io: 43, giusto 4 più di me. Io non credo proprio che tra 4 anni sarò direttore di una testata nazionale, e tu? Penso che Calabresi sia veramente uno dei pochi che non puoi citare come esempio di qualcuno che abbia "occupato i gangli del potere", e ci sia rimasto. Amen.
gjova dice
Caro Marco,
penso che l'Italia sia il paese delle scorciatoie, in tutti i suoi aspetti. Pensiamo di fare le cose utilizzando il minor lavoro possibile, attraverso vie protette che ci consentano di ottenere quello che desideriamo nel minor tempo possibile, ma nello stesso tempo, critichiamo coloro che ce la fanno grazie ad aiuti e conoscenze e ci dimentichiamo o non sappiamo, quanto sia "costoso" essere cittadini ligi alle leggi. Se a questo ci aggiungi un livello culturale , generale e soprattutto nelle classi dirigenti, a dir poco disarmante, e una visione egoistica della società dove conta solo il benessere personale ti puoi spiegare molti dei nostri mali.Non capiamo che nessun pasto è gratis, e ogni pasto ci lascia delle briciole.
Alberto dice
Riporto in fondo al mio post il testo di una pagina tratta dal blog di Beppe Grillo, scritto da Melania di Bella (http://www.beppegrillo.it/2013/04/choosy_a_chi.html), ad introduzione delle mie considerazioni.
Dopo aver letto la storia di questa donna, sicuramente dotata sia di buoni ideali che di indubbia determinazione, sono riuscito ad acquisire un punto di vista esterno che mi confermato il quadro della trasformazione avvenuta negli ultimi 20 anni, dati che avevo analogamente già raccolto nella mia personale esperienza. La mia tesi è che l'argomentazione di Calabresi nel perseguire un sogno - benché condivisibile - sia ormai anacronistica ed inapplicabile, di fronte al riscontro reale di controtendenza, di cui di seguito approfondisco.
Chi legge questa esposizione si renderà conto che essa è diversa da una sterile lamentela (che è solo giudizio) anche se arriva alle stesse conclusioni di chi si lamenta; tuttavia essa fornisce una pragmatica rilevazione (cioè una misura) di cosa avviene in realtà. Questa analisi ha dunque molto in comune con il lavoro di un fisico sperimentale delle particelle che effettua misure che vanno a confermare o escludere un modello teorico: in questa metafora, quello che da un punto più “aulico” auspicherebbe Calabresi - cioè la capacità di avere fiducia nel cambiamento - non riesce proprio a trovare riscontro, specie in chi oggi ha vent'anni e sperimenta sulla pelle una situazione molto diversa anche solo da chi – come l’autore del libro – ha 43 anni.
Chi è ancora un’idealista (come ammetto di essere anch’ io, cioè capace di avere infinita fiducia nel cambiamento, come auspica anche Calabresi) è indotto in un errore sistematico sulla misura della realtà; è cioè portato ad ignorare le difficoltà che incontra, rimanendo fermamente convinto che queste possano essere compensate con l’impegno in un prossimo risultato positivo: l’idealista combattivo e reattivo pensa cioè che quello che accade sia momentaneo, accidentale e soprattutto un caso personale.
Questa incapacità nel vedere crescere il trend generale nel tempo, fatto di cui voglio un po’ rimproverare anche il Calabresi, trova radici negli anni '90 quando, al presentarsi degli effetti di peggioramento della società italiana, si affermarono soluzioni individualistiche positive, cioè quella mentalità facente leva sull'impegno personale (chi non ricorda in quegli anni le numerose offerte di corsi di miglioramento personale e motivazionale?) al fine di ottenere il meritato riconoscimento dei propri meriti, risultati che fino agli anni '70 arrivavano effettivamente come manna dal cielo, cioè senza quasi proferire sforzo. Non c'è dubbio che negli anni '90 e con questa mentalità la quasi totalità dei ventenni di allora (come il sottoscritto) mantenessero ancora una grande fiducia - seppur a fronte di un rinnovato impegno - di poter controllare il proprio futuro. La situazione è però oggi talmente degenerata ed in modo rapido che anche un quarantenne di mentalità aperta può faticare a comprendere completamente lo scoramento delle nuove generazioni.
Non voglio assolutamente assolvere chi si scora in partenza ed esercita solo sterile lamentela ma innanzitutto il fenomeno non può più essere più letto oggi in maniera isolata ma deve essere identificato nel consolidarsi di un modello, cioè deve essere letto in maniera "sistemica"; è un po' come ipotizzare un canale di decadimento di una particella e ricercarne la validità misurando la frequenza statistica di una risonanza: salvo purtroppo piccole fluttuazioni entro il “range di confidenza”, l'evidenza statistica dell'incapacità di poter cambiare con i propri atti e in maniera significativa il proprio futuro è ormai più che un 5 sigma.
La fisica continua poi ad essere una buona chiave di lettura della ns. società: così come abbiamo due teorie della materia, una in larga parte probabilistica per definire il comportamento della singola entità ed una largamente deterministica per definire l'insieme di tutto, anche qui significa che la realtà è creata da più parti che operano sì in modo singolo ed indipendente ma che nello stesso tempo concorrono a determinare anche un più significativo effetto globale, che ricade a sua volta sulla singola parte.
Nei termini sociali di cui si stava parlando, questo si traduce nel fatto che il singolo può far veramente poco per attuare qualche contromisura (e nell'averne ora buona consapevolezza, tanto meno riesce a confidare di poter cambiare il sistema, il “sogno” di cui Calabresi parla).
Ma poiché anche l'universo come la ns. società rispetta la legge di causalità (che può essere giustamente definita un criterio di perfezione, dato che ogni effetto è in funzione delle sue cause nel margine di una piccola incertezza), è più opportuno chiedersi quali siano le cause in origine, singole o globali che determinano questo risultato da cui vorremmo affrancarci; averne consapevolezza è estremamente importante perché può aiutarci a cambiare il risultato.
Anche qui, come nella meccanica quantistica e nella teoria della relatività, cioè nei modelli che utilizziamo per spiegare il funzionamento dell'universo, le risposte sono dovute al susseguirsi di cause ed effetti. Volendo dare un inizio all’esame retroattivo e partendo da una facilmente identificabile causa originale, comincerei a ricordare che il problema nasce e si consolida silenziosamente nel tempo a partire dagli anni ’70 nell'invano tentativo di bloccare ogni cambiamento nel paese, nell'utopica convinzione di poter riuscire a mantenere indefinitamente il benessere che i nostri genitori avevano fino ad allora raggiunto.
Oggi in Italia - come in fisica - assistiamo alla rottura di una simmetria, rappresentata dallo scindersi dall'interesse generale, non più ora una forza coesa in un’unica direzione ma due vettori divergenti rappresentati da chi chiede il cambiamento e chi non lo vorrebbe: se è infatti vero che ci sono numerose “ingessature” che bloccano il "sistema Italia" e che andrebbero rimosse per adeguarsi ad una mutata realtà globalizzata e che creano le difficoltà che osserviamo oggi, ci sono tuttora moltissime persone che avendo superato indenni la crisi e volendo ignorare che non ha avuto la loro stessa fortuna, hanno interesse che non cambiare il sistema che li ha finora supportati e protetti.
Diventa allora opportuno ricordare che in natura la variazione - riconducibile alla presenza di entropia - è sempre presente nell'universo e consente la rigenerazione e il rinnovamento dello stesso; essa parte dall' infinitamente piccolo e si serve del meccanismo della casualità in esso insito per rimescolare lentamente il risultato del sistema. Ho utilizzato questa formulazione per dire che, se un cambiamento avverrà prima o poi, questo partirà comunque dal cambiamento in ognuno di noi.
Purtroppo, gli italiani da troppo poco hanno abbandonato un periodo di benessere e credono ancora nella forza opposta, cioè alla permanenza; da cui si evince che noi, a differenza degli Americani – costituitisi già culturalmente nell'opportunità e nel rinnovamento, difficilmente amiamo “che le carte vengano rimescolate”. Detto questo, possiamo capire perché non si può più ragionevolmente aver fiducia: se le regole non cambiano, non dico per tutti ma almeno per una buona parte del “sistema”, la determinazione – che come afferma Marco “non esiste disgrazia che possa fermarla” - non serve a molto, forse serve solo ad innalzare la consapevolezza della necessità di un cambiamento in un numero crescente di persone.
Infatti la determinazione funziona perfettamente per chi invece vive nei cosiddetti paesi emergenti, cioè in quei paesi dove è in corso una completa ristrutturazione della società e dove gli individui, coscienti dei meccanismi attuati dal sistema che li supporta, sono molto fiduciosi di potersi migliorare ed imprimono quotidianamente le proprie energie nella consapevolezza che – in questo caso – il “5 sigma” nel poter cambiare il loro futuro è dalla loro parte.
giulio dice
I ladri. Sono i ladri quelli che ci hanno affossato. Sono i manager superpagati anche quando sbagliano... e le loro incredibili liquidazioni. Sono i camorristi, mafiosi, ndranghetari, stiddari, che hanno inondato il mondo di polverine e canne per i nostri stupidissimi cervelli fruitori e che hanno impoverito i settori produttivi con i loro pizzi... Sono quei politici ai quali non abbiamo resistito che hanno ammantato di brillanti le loro parole e solo parole sono rimaste. E adesso abbiamo anche i politici che dopo trent'anni di lavoro nel settore non sanno ancora valutare l'impallinamento sicuro dopo la loro proposta "acclamata" (Bersani) ... io la chiamo professionalità. Al di là dei lamenti... cambierà... tutto cambierà... dopo che abbiamo toccato il fondo e raschiato... Ma come facciamo con i manager? Contro altri ci sono delle leggi e c'è una speranza. C'è una legge che protegge i loro emolumenti? E poi... tutti quei quattrini dove vanno?
accorcio per essere letto
giulio dice
anzi. Spiego come facciamo io ed altri amici a vivere. Facciamo teatro e coinvolgiamo dei giovani. Abbiamo festeggiato il carnevale in piazza e ci siamo fatti coinvolgere dai giovani. Stiamo rimettendo in piedi antiche tradizioni di canto. Se qualcuno ci darà una mano porteremo un'orchestra giovanile a suonare in mezzo ai nostri castagni ( come abbiamo fatto l'anno scorso con una riduzione del flauto magico mozartiano). Abbiamo almeno quattro feste annuali di circa una ventina di giorni. Abbiamo, in una comunità di un millecinquecento persone (io ci metto due paesi) qualcosa come centotrenta volontari suddivisi tra Anpas, Misericordie, AIL. Uno dei sogni di qualcuno di noi era una conferenza di Marco Delmastro sulla fisica delle particelle... estiva... ma ancora non gliel'abbiamo detto perché prima occorrerebbe appianare qualche difficoltà logistica ed economica per ospitarlo... ma non sarebbe impossibile appianarle. Seguiamo blog culturali e scientifici come questo. Leggiamo giornali. Ideali? Vivere. Giustizia sociale. Morire tra molti anni ma per essere spettatori a lungo delle cose nuove che esisteranno nel mondo... magari una nuova fisica e un superamento del modello standard.
Però. Però noi il lavoro ce l'abbiamo.
franco zoccheddu dice
Ho appena terminato di rileggere un pregevole saggio di storia della fisica scritto a metà anni novanta da un'allieva di Enrico Bellone, Dalida Monti, dal titolo bellissimo e intrigante "Equazione di Dirac". Una rivisitazione storica dello sviluppo della nozione di campo fino all'inizio degli anni quaranta (per intenderci, a un passo da Schwinger, Feynman, Dyson e la QED), da parte di una persona che conosce bene la teoria dei campi quantistici. Antimateria, lacune, spinori, seconda quantizzazione, rinormalizzazione (diagrammi di Feynman!!!), propagatori, e tutto l'armamentario meravigliosamente astratto che ci ha condotti fino allo SM e all'Higgs.
Ma che c'entra con la fiducia e con Calabresi?
Non lo so bene. E' che un alunno mi chiedeva quale sarà la probabilità che possa diventare un affermato fisico delle particelle, senza avere alle spalle una famiglia solida. Povero, insomma.
Davvero, non ho saputo cosa dirgli. Non andrà all'università. Non sarà un fisico delle particelle. Il suo compagno di banco ha una famiglia benestante, e sprizza fiducia da tutti i pori.
Mi sforzo comunque di capire lo spirito del discorso di Calabresi, per quanto difficile di questi tempi.
maurizio dice
ciao, sono anche io fisico e sono anche io emigrato all'estero, solo che l'ho fatto alla soglia dei 40 anni
nel mio caso i miei genitori, facendo lavori umili da operai, hanno cavalcato il boom economico degli anni 60-70 e sono riusciti a costruire una casa, lavorando sempre nello stesso paesino. hanno quindi avuto tutto lo spazio che sono riusciti a prendersi, sempre nel pieno rispetto della società e delle leggi. però non hanno mai viaggiato, ne studiato sopra un certo livello. adesso il mondo è cambiato, costruire una casa per me sarà impossibile, però posso amdare in USA o dove mi pare, parlando con la gente in Inglese, e posso lavorare in quella che è stata la mia passione da quando ho ricordi.
Certo, la vita è dura, ma credo lo sia stata anche per i miei genitori. Lamentarsi senza fare nulla, dopo un po'....stanca.
Ps bella scoperta questo blog, mi piacerebbe approfondire la questione del vivere all estero da "maturi"...con un occhio al nostro campo