Un anno fa mancava mio zio Piero.
Era una persona solitaria e schiva, piemontese all'estremo, se possibile.
Nonostante questo suo essere chiuso, "orso", è riuscito - probabilmente senza volerlo - a essere una figura importante per me. Era un alpinista, non amava raccontare le sue imprese, ma ho sempre avuto l'impressione di percepire la passione inquieta che lo aveva portato a scalare. E' stato il compagno di Ugo Manera, ma questo io l'ho scoperto solo più tardi, leggendo "Pan e pera", perchè da lui non ho mai ascoltato nessuno di quei racconti.
Non siamo mai andati in montagna insieme. Era sempre molto dissacrante rispetto a tutto, scettismo e cinico quasi per partito preso, come se volesse convincerti che in fondo non ci fosse nulla che importasse per lui. Doveva essere il suo modo di difendersi, da cosa chissà.
Per un certo periodo veniva a prendere il caffè da noi il sabato pomeriggio dopo pranzo, verso le 2. Passavamo un'oretta insieme prima che io infilassi i pantaloncini corti e il fazzolettone per correre ad attività con gli scout. Arrivava in via Bidone da via Pigafetta a piedi, sempre in maniche corte, come se il freddo non gli facesse nulla. Le sue avventure di allora erano la Russia, poi la Cina, dove era stato a lungo per lavoro e che dipingeva con il consueto disincanto. Ma ogni tanto gli uscivano anche piccole frasi sulla montagna, che segretamente conservavo come i consigli di un saggio. Nel 2000 abbiamo passato il capodano al rifugio Talarico: mentre studiavo la mappa, con un gesto improvvissamente molto attento mi ha mostrato tutti i versanti potenzialmente pericolosi per le valange. E poi cose come: "impara lo spazzaneve, sulle piste non serve a nulla, ma in montagna in un sentierino stretto è bene che tu lo sappia fare".
Non so se l'ho mai veramente conosciuto, se qualcuno lo ha mai veramente conosciuto: a un certo punto ha eretto un muro tra lui e il mondo, un muro difficile da penetrare, che l'ha portato a morire da solo.
Quello che però so è che, sotto questa scorza che copriva chissà quali dolori, c'era un uomo buono, di una bontà schiva che sembrava far fatica a mostrarsi. Nel 1989 lavorava a Napoli, ma era a Torino per la mia Cresima. Mi portò una maglietta polo della Converse, simile a quelle che portava sempre lui, in estate come in inverno. Una maglietta firmata alla fine degli anni 80 era una regalo grosso per un adolescente, ma lui si schernì dicendo che era probabilmente finta, che a Napoli sanno fare dei falsi similissimi. Quella maglietta è ancora nel mio cassetto.
E poi so che mi manca, e mi manca la possibilità di dirgli le cose che avrei voluto condividere con lui. Quando è morto ho ereditato il suo materiale da montagna. Delle tante cose, una in particolare mi fa vibrare: il suo martello da alpinismo, rigato dei colpi dati su chissà quale rocca sperduta, a sfogare sulla roccia paure e speranze e desideri e dolori. Uno dei suoi moschettoni è sempre attaccato al mio zaino, un ultimo modo di andare in montagna insieme, di non dimenticare, pure nel silenzio, i legami misteriosi che ci uniscono.
[...] e voler allo stesso tempo studiare fisica, fare il capo scout, suonare in un gruppo, andare in montagna, fotografare il mondo, avere una fidanzata, e così via. Ma, nonostante l'impegno saltuario [...]