Da qualche settimana sto facendo un corso di francese.
Vivo a cavallo tra la Francia e la Svizzera ormai da più di un anno, e parlo un francese dignitoso, che mi permette di sopravvivere tanto tra i fisici che al supermarcato o al cinema. In francese leggo pure qualche libro, facile (chessò, ho digerito bene Amelie Nothomb, Pennac - che pure avevo già letto in italiano - mi è rimasto sullo stomaco alle prime pagine). Ma faccio una fatica improba a scrivere in francese.
Per uno che ha imparato una lingua ascoltando la radio e gli amici, per imitazione e tentativi e assonanze, le parole sono solo suoni, non hanno mai assumono forma di lettere affinacate sul bianco della carta. D'accordo, i francesi sono pazzi, hanno mille accenti e strane manie nella scrittura, che è per loro un'arte codificatafino alla paranoia. Però faticare a scrivere una semplice lettera alla padrona di casa è una sensazione profondamente spiacevole; è analfabetismo di ritorno, impotenza, povertà e isolamento. Per questo mi sono messo a studiare. Scrivo lettere improbabili a interlocutori immaginari, temi sull'inquinamento, riflessioni sulla società odierna, insomma tutto il campionario di un buon studente di seconda media.
Ho letto di recente un bel libro di Marisa Feniglio (la sorella di Beppe), "Vivere altrove", che mi sento di consigliare a chi si è dovuto allontanare da casa, per un'emigrazione probabilmente più facile di quella dei nostri nonni, ma non meno sradicante. Scrive la Fenoglio:
Quanto tempo occorre perchè una lingua diventi patria? E in essa esprimersi come si vuole, non più tradurre, ma finalmente parlare?
E ancora:
L'uomo migliore non è il tedesco o l'italiano o il turco o chicchessia, ma colui che fa dimenticare da dove viene.
Vorrei essere uno di questi uomini migliori, nei paesi in cui il pendolarismo esistenziale della mia vita mi ha portato e mi porterà.
adriana dice
puoi continuare con questo lavoro-ricerca
tra lingua e suono;
lo ritengo prezioso.